Il SPP (Sindacato Polizia Penitenziaria) denuncia il business dei braccialetti elettronici che il Ministro della Giustizia Orlando considera, in maniera semplicistica ed estemporanea, come la “soluzione” del gravissimo problema del sovraffollamento delle carceri.
A giorni – dichiara il segretario generale del SPP Aldo Di Giacomo – il ministero dell’Interno concluderà l’iter per l’assegnazione della gara (la spesa preventivata è di 45 milioni di euro) e la gestione di mille braccialetti al mese che l’autorità giudiziaria avrà a disposizione. Si tratta di 12 mila braccialetti elettronici all’anno di nuova tecnologia con gps.
Secondo i dati acquisiti il 31 maggio 2017, le ordinanze adottate dalla magistratura per l’attivazione dei braccialetti elettronici raggiungevano un totale di 12.539 al 1° gennaio 2014, nella stessa data erano stati attivati 10.170 dispositivi.
Alla fine di maggio 2017, invece, risultavano attivi 2.000 dispositivi, 121 in lista di attesa e 30 in attivazione pianificata. Ma si omette di dire agli italiani – segnala Di Giacomo – che i costi sin qui sopportati sono stati ingenti: secondo dati forniti di recente in Parlamento si sono spesi oltre 175 milioni di euro con risultati di fughe facilitate, come è accaduto durante questa estate. Inoltre il costo giornaliero in Italia è di oltre 100 euro mentre in Gran Bretagna, per fare un paragone, si spendono appena 7 euro.
E’ un business – ricorda il segretario del SPP – che viene dal 2001. da un accordo di due ministri dell’allora governo Amato: il ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e il Guardasigilli, Piero Fassino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale aveva noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all’anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro.
Un gap che la ex ministra Cancellieri aveva tentato di risolvere con un decreto del 2013 che caldeggiava l’utilizzo dei braccialetti per le persone agli arresti domiciliari. Però, fino al 2014, ne erano attivi solo 55 in otto uffici giudiziari.
Con tutti questi soldi – commenta Di Giacomo – si sarebbe potuto finanziare un piano di interventi di urgenza se non in tutti gli istituti penitenziari sicuramente in buona parte di essi. Altro che “percorso rieducativo” del detenuto! E poi: perché non fare pagare il costo al detenuto o alla sua famiglia?