“L’aggressione di un’agente penitenziaria ad opera di una detenuta nel Carcere femminile di Rebibbia a Roma testimonia che al di là della diffusa “filosofia buonista”, secondo la quale “l’indole femminile non porta a delinquere contro la persona”, non si può abbassare l’attenzione sul fenomeno di aggressioni e su atteggiamenti da “dure” che, al pari o per imitazione degli uomini, coinvolgono numerose delle 2.400 detenute oggi negli istituti di pena del Paese”.
Ad affermarlo è il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo.
Nel sottolineare che la durata della pena inflitta alle donne si attesta più frequentemente tra i 3 e 4 anni, seguita poi da pene ricomprese tra i 2 e 3 anni, ma, in generale, sono le pene fino a 5 anni quelle che vengono più spesso inflitte, per il segretario del S.PP. “bisogna abbandonare l’idea delle cosiddette misure alternative solo perché donne.
Chi aggredisce un agente penitenziario va punito ancor più severamente perché viene colpito il servitore dello Stato e perché si deve fronteggiare la “sfida” allo Stato.
Se ci fosse ancora bisogno di esempi con l’aggressione a Rebibbia siamo di fronte all’ennesimo caso della confusione che regna nel nostro Paese tra vittime e carnefici”. Per Di Giacomo “bisogna mettere fine a questo sistema carcerario tipicamente italiano, dove chi delinque gode di benefici, che rappresenta un pericolo per i cittadini e più direttamente per il personale penitenziario, di fatto delegittimato dalle sue funzioni e dai suoi compiti.
La nostra – continua Di Giacomo – è una denuncia che ha troppe prove provate: uomini e donne intendono imporre le proprie regole in carcere e non aspettano altro che un segnale di resa da parte dello Stato per porre il personale degli istituti di pena in una condizione di totale isolamento in quanto gli unici difensori di legalità e giustizia”.
“Noi – conclude – continuiamo a credere che esiste una bella differenza tra vittime e carnefici (siano uomini o donne)”.