“L’Amministrazione Penitenziaria conosce i detenuti in carcere o si ferma alle loro generalità?
E per i detenuti islamici cosiddetti radicalizzati quali misure di controllo adotta?”: sono due interrogativi tutt’altro che formali che pone il segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo dopo l’arresto avvenuto ieri in Francia di Hassin Kalifi, 40 anni, evaso l’11 gennaio scorso dal carcere di Avellino insieme ad un altro detenuto romeno, che è ancora ricercato.
“Mentre subito dopo l’evasione fonti ministeriali hanno smentito che si trattasse di un sospetto terrorista, come l’S.PP. aveva temuto mettendo in guardia sulla sua pericolosità, solo alla cattura – afferma Di Giacomo – si ammette che Kalifi, condannato a una pena passata in giudicato per traffico di stupefacenti, era segnalato come sospetto radicalizzato, vicino al terrorismo islamico.
Siamo di fronte ad un caso che introduce seri dubbi sulla gestione dei detenuti in particolare di matrice islamica e terroristica.
Come sindacato abbiamo lanciato da tempo l’allarme sul rischio “radicalizzazione islamica” nelle carceri italiane.
Negli istituti penitenziari italiani ci sono tra i 10 e i 15 mila detenuti islamici, mentre la cosiddetta classificazione del livello di radicalizzazioni, così come è avvenuto sinora da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, si presta a varie interpretazioni e comunque non serve certamente a tranquillizzare il personale penitenziario che è impreparato alla gestione di questo problema.
La realtà è diversa: sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l’Occidente, oltre a compiere atti violenti contro gli agenti.
Secondo i dati più aggiornati i detenuti sui quali si concentrano timori di radicalizzazione sarebbero circa 500 suddivisi in tre categorie:” segnalati”,” attenzionati” e” monitorati”.
Gli ultimi dati forniti dal Ministero alla Giustizia – sottolinea Di Giacomo – sono sicuramente superati da una situazione in forte evoluzione per il continuo e costante ingresso di cittadini extracomunitari di fede islamica (e non) nei nostri istituti penitenziari.
Ma se è assolutamente chiaro chi sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre tre categorie entro cui sono collocati i detenuti ritenuti ‘radicalizzati’.
Per questo è indispensabile sviluppare in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione” dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione.
In carcere accade quello che già accade con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti.
Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti extracomunitari ed islamici è più alto e dove si continuano a verificare episodi di aggressione al personale”.