“Ha fatto bene iI Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini ad invitare i direttori degli istituti penitenziari ad elevare il livello di allerta e di sensibilità nei confronti di un possibile innalzamento della minaccia terroristica. Noi lo abbiamo denunciato da tempo: le celle sono un formidabile strumento strategico di reclutamento sfruttato non solo dalla criminalità organizzata ma anche dai fondamentalisti islamici”.
Così Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria che aggiunge: “la nostra preoccupazione è che, anche questa volta, l’autorevole voce del dott. Basentini resterà inascoltata dalla politica e lo stesso accadrà negli altri sindacati di categoria. Entrambi continuano a sottovalutare la situazione degli istituti penitenziari italiani dove ci sono tra i 10 e i 15 mila detenuti islamici, mentre il numero degli ospiti provenienti dai Paesi di fede islamica nei CPR è di gran lunga superiore e va costantemente aggiornato.
La cosiddetta classificazione del livello di radicalizzazione dei detenuti islamici, così come è avvenuto sinora – aggiunge Di Giacomo – si presta a varie interpretazioni e comunque non serve certamente a tranquillizzare il personale penitenziario come il personale dei CPR che è impreparato alla gestione di questo problema.
La realtà è diversa: sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l’Occidente.
Secondo i dati più aggiornati i detenuti sui quali si concentrano timori di radicalizzazione sarebbero circa 500 suddivisi in tre categorie: “segnalati”, “attenzionati” e “monitorati”.
Una cinquantina le persone sono incarcerate con l’accusa di terrorismo internazionale nelle sezioni di alta sicurezza loro riservate (Rossano, Sassari e Nuoro). Per gli altri, che sono ritenuti soggetti a rischio, vengono condotte attività di monitoraggio che puntano a rilevare atteggiamenti di sfida verso le autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre fedi religiose, segni di gioia di fronte a catastrofi o attentati in Occidente, esposizione di simboli legati al jihad.
Ma nei nostri istituti non c’è personale esperto, preparato a fronteggiare la situazione e nemmeno che conosce la lingua araba.
Per questo è indispensabile sviluppare in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione “dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione. In carcere accade quello che già accade con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti.
Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti extracomunitari ed islamici è più alto e dove si continuano A verificare episodi di aggressione al personale”.