“L’operazione anti-terrorismo islamico con gli arresti operati tra cui l’imam della moschea Dar Assalam di Martinsicuro, nel Teramano, già condannato in via definitiva per associazione con finalità di terrorismo internazionale, è la semplice conferma dell’allarme che, inascoltati, abbiamo lanciato da molto tempo: le carceri sono diventate il luogo privilegiato per il reclutamento di terroristi”.
Ad affermarlo è il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo per il quale “l’imam arrestato, paradossalmente, è più pericoloso in cella che fuori. Negli istituti penitenziari italiani, dove sono rinchiusi tra i 10 e i 15 mila detenuti islamici, il rischio è fortemente sottovalutato dall’Amministrazione Penitenziaria nonostante abbiamo più volte segnalato questa grave emergenza. Intanto – aggiunge – la cosiddetta classificazione del livello di radicalizzazione dei detenuti islamici si presta a varie interpretazioni e comunque non serve certamente a tranquillizzare il personale penitenziario che è impreparato alla gestione di questo problema e tanto meno i cittadini.
La realtà è diversa: sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l’Occidente. Secondo i dati più aggiornati i detenuti sui quali si concentrano timori di radicalizzazione sarebbero circa 500 suddivisi in tre categorie: “segnalati”, “attenzionati” e “monitorati”. Una cinquantina le persone sono incarcerate con l’accusa di terrorismo internazionale nelle sezioni di alta sicurezza riservate a loro (Rossano, Sassari e Nuoro).
Per gli altri, che sono ritenuti soggetti a rischio, vengono condotte attività di monitoraggio che puntano a rilevare atteggiamenti di sfida verso le autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre fedi religiose, segni di gioia di fronte a catastrofi o attentati in Occidente, esposizione di simboli legati al jihad.
Gli ultimi dati forniti dal Ministero alla Giustizia – sottolinea Di Giacomo – sono sicuramente superati da una situazione in forte evoluzione per il continuo e costante ingresso di cittadini extracomunitari di fede islamica (e non) nei nostri istituti penitenziari. Ma se è assolutamente chiaro chi sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre tre categorie entro cui sono collocati i detenuti ritenuti radicalizzati.
Per questo è indispensabile sviluppare in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione “dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione.
In carcere accade quello che già accade con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti specie se in cella finisce un imam che ha forte ascendente sui detenuti di fede islmica.
Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti extracomunitari ed islamici è più alto.