Ha perfettamente ragione, Vincenzo Gualzetti, padre di Chiara, la studentessa di 16 anni uccisa da un coetaneo il 27 giugno dello scorso anno a Monteveglio nel Bolognese: “i ragazzi in carcere non possono usare il telefono e pubblicare contenuti sui social liberamente, c’è qualcosa che non quadra”.
Noi lo stiamo denunciando da tempo: dalle carceri l’uso disinvolto del telefonino non deve essere consentito, sbeffeggiare le famiglie delle vittime e, contemporaneamente, lo Stato”.
Ad affermarlo è il segretario generale del S.PP. – Sindacato Polizia Penitenziaria – Aldo Di Giacomo per il quale “il fenomeno ha assunto da qualche tempo l’effetto emulazione specie tra i giovani detenuti, secondo una convinzione molto diffusa di restare impuniti.
Mi riferisco al “noto” videoclip del rap “Baby Gang” girato a San Vittore, diventato un simbolo per quanti pensano di poter trasformare le carceri in “location” di videomusicali.
Al singolo “Paranoia” che lo stesso Baby Gang ha registrato in carcere si aggiungono – solo per citare gli ultimi casi – i detenuti- neomelodici che da Poggioreale hanno girato e trasmesso un video-musicale, i video su Tik Tok realizzati dal capo clan pugliese agli arresti domiciliari che con musica neomelodica di sottofondo, in compagnia di altre persone, ha ostentato ingenti quantitativi di denaro in contanti.
La detenzione in cella o a casa è dunque diventata soggetto preferito per usare i social, location per girare video-musicali prendendo in giro lo Stato e direttamente le vittime e le famiglie che hanno subito assassini, violenze, furti e atti criminali.
Ma ciò che più ci sconcerta – continua Di Giacomo – è che solo in queste occasioni i media scoprono l’acqua calda e cioè che nelle carceri sono diffusi i telefonini anche quelli più tecnologici finiti persino nelle mani dei giovanissimi oltre che di boss, capo clan ed affiliati hanno facile accesso ai social.
Mettiamoci semplicemente nei panni di chi ha subito l’uccisione di una figlia, una violenza, una rapina che legge insulti e assiste all’indecoroso spettacolo per rendersi conto del sentimento di forte indignazione e più che legittima rabbia che serpeggia. Per noi – dice Di Giacomo – è il segno più degradante del “buonismo” diffuso nei confronti dei detenuti ai quali è concesso persino di divertirsi con video-sceneggiate, video di musica rap e filmati sui social.
Ma attenzione: se per i giovanissimi è “tendenza”, come sostengono magistrati anti mafia in trincea nella lotta alle mafie l’uso dei social è dimostrazione di potere e contiene persino messaggi di comando inviati all’esterno”.