14 ottobre 2024 Di Giacomo – L’aggressione ad agenti da parte di detenuto islamico è un “campanello d’allarme” rischio “radicalizzazione islamica” nelle carceri italiane

Primo piano

Il caso del detenuto marocchino che ha aggredito cinque agenti penitenziari del carcere di Chieti e ne ha ferito uno con pugno, gridando “Allah akbar vi uccido tutti”, è un nuovo campanello d’allarme da non sottovalutare. Come sindacato abbiamo lanciato da tempo l’allarme sul rischio “radicalizzazione islamica” nelle carceri italiane dove, alla data del 30 settembre 2024, erano presenti 7.365 detenuti di fede musulmana.

A sostenerlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Spp (Sindacato Polizia Penitenziaria) sottolineando che senza generalizzare sulla fede dei detenuti extracomunitari – in maggior parte provenienti dai Paesi del Nord Africa – la cosiddetta classificazione del livello di radicalizzazione dei detenuti islamici, così come è avvenuto sinora da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, non serve certamente a tranquillizzare il personale penitenziario che è impreparato alla gestione di questo problema e in generale al rapporto con detenuti extracomunitari del Nord Africa.

La realtà è che sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e, soprattutto in questa fase di guerra in Medio Oriente, mostrare apertamente odio verso l’Occidente contro il personale penitenziario “infedele”.

Gli ultimi dati forniti dal Ministero alla Giustizia – sottolinea Di Giacomo – sono sicuramente superati da una situazione in forte evoluzione per il continuo e costante ingresso di cittadini extracomunitari di fede islamica nei nostri istituti penitenziari.

Ma se è assolutamente chiaro chi sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre categorie entro cui sono collocati i detenuti ritenuti ‘radicalizzati’.

Per questo è indispensabile sviluppare in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione “dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione.

In carcere accade quello che già accade con il reclutamento e l’affiliazione” a clan mafiosi di detenuti.

Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti extracomunitari ed islamici è più alto e dove si continuano a verificare episodi di aggressione al personale.

Si tratta di un allarme lanciato da almeno un paio di anni dal Copasir che conferma la nostra tesi: il carcere è “terreno fertile” per i fenomeni di radicalizzazione perché accade quello che già avviene con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti con l’effetto che una volta usciti ci ritroviamo nelle nostre città con potenziali terroristi o appartenenti a violente gang di criminali specie nigeriane”.

Per Di Giacomo “non basta più procedere attraverso il sistema superato di suddivisione dei detenuti di fede islamica in tre categorie -” segnalati”,” attenzionati” e” monitorati” – perché se il “proselitismo” è il fenomeno più diffuso per la criminalità italiana e straniera in questo caso rappresenta la “scuola per nuovi terroristi”.

Il Segretario Generale

Dott. Aldo Di Giacomo

Dott. Aldo Di Giacomo

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